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Adelasia di Torres

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Adelasia di Torres

Adelasia di Torres
La castellana di Burgos

Prologo

Sempre più lunghe e cupe, si proiettavano le ombre della sera, create dalle vette dei Monti del Goceano. Dietro dette cime, contornato da sfavillanti colori, che sono i suoi ultimi guizzi di vita di quel giorno, moriva il caldo e vivifico Sole.
Quelle ombre, gradatamente diventarono un nero manto di tenebre, che avvolsero la svettante torre del Castello di Burgos, allora detta del “Goceano”, sottraendola alla vista.
Soltanto un lumicino che sembrava sospeso a mezz’aria nel buio della notte, indicava che almeno una stanza di quella costruzione era abitata e, se si fossero potute superare con lo sguardo le sue robuste mura, si sarebbe vista in detta, prostrata su di un duro e rozzo inginocchiatoio di legno, davanti ad un’effigie della SS. Vergine Maria, pregare fervidamente, una donna dall’indefinibile età, completamente vestita e col capo ricoperto di grossolana stoffa di colore nero.
Nel caso avessimo potuto frugare nel suo freddo cuore, avremmo visto che col calare delle tenebre, quel freddo era diventato gelo.
Ella era sola con i suoi pensieri: l’unica persona della quale poteva avvertire la presenza era una serva, fedele soltanto a chi la pagava per assolvere il compito di carceriere.
Quel che poteva ammirare la donna vestita di nero, era soltanto ciò che inquadrava una finestrella che s’affacciava sull’alta Valle del Tirso: uno squarcio di desolata campagna.
Ella sentiva la vita sfuggirli, gradatamente ogni giorno che trascorreva la dentro.
Chi era quella donna, smagrita e smunta, quasi diafana?
Ella era stata addirittura, contemporaneamente sovrana di due regni: quello di Torres e di Gallura.
Quella donna, come s’era ridotta in detto stato?
Per saperlo occorre compiere un gran balzo indietro nel tempo, ai primi anni del secolo XIII.

1


Nel 1218, una poderosa flotta navale salpava dal porto di Pisa alla volta della Sardegna gremita di truppe: al comando c’erano due pisani della nobile Famiglia dei Visconti, Lamberto ed Ubaldo.
Il primo, era alto e magro, di mezz’età, con i capelli lunghi marcati dalla canizie, baffi con le punte arricciate, occhi neri e profondi e naso aquilino. Si comportava in modo autoritario, vestiva abiti da battaglia ed era armato con spada e pugnale.
Il secondo, Ubaldo era di statura media; portava capelli biondi, lunghi e inanellati. Aveva gli occhi verdi ed era alto e aitante. Sotto i panni s’indovinava una muscolatura possente e scattante di chi è avvezzo ad eseguire esercizi fisici; era poco più che ventenne e, anche lui indossava abiti da combattimento ed era armato di tutto punto.
In vista della Sardegna, la flotta si scisse in due tronconi: uno accostò alle spiagge della Gallura e sbarcò degli uomini armati, che presto ebbero ragione delle poche truppe galluresi poste a difesa delle coste. I numerosi invasori, ben armati ed equipaggiati, iniziarono subito l’invasione della Gallura e presto portarono a termine la conquista di quel giudicato.
L’altra parte della flotta sbarcò i suoi uomini nella zona meridionale dell’isola, dove occuparono numerose terre del Giudicato di Cagliari.
Il pontefice Onorio che vantava la potestà sulla Sardegna, desideroso di combattere con ogni mezzo, quello che era il secondo tentativo dei pisani di ledere i suoi diritti; per la prima volta nella Storia, si vide costretto a chiedere aiuto nelle questioni sarde.
Con lettera del 10 novembre 1218 chiese ai milanesi d'accorrere in soccorso della Chiesa, assistendo con le loro armi il giudice Mariano II di Torres; il quale s’accingeva a schierare le sue truppe contro il nuovo usurpatore.

2


La donna prigioniera nell’isolato Castello del Goceano era Adelasia, figlia del suddetto giudice e d’Agnette o Agnese; questa, a sua volta era figliola di Guglielmo, marchese di Massa e Regolo di Cagliari. Dall’unione di Mariano II con Agnese di Massa nacque, anche Benedetta che andò sposa al Conte d’Ampurias e il loro fratello, Barisone III, successore al giudicato; il quale durò in carica soltanto tre anni e altrettanti mesi, perché fu trucidato dai sassaresi in una rivolta contro il suo potere dispotico.
Il suo corpo fu sepolto nella Chiesa di San Pantaleo in Sorso.
Nel frattempo i milanesi, per i soccorsi chiesti dal pontefice Onorio, non mossero un dito. Per Mariano II, il quale non disponeva di truppe sufficienti per opporsi ad Ubaldo che divenne unico giudice di Gallura, la situazione diventò critica.
Non gli rimase altra soluzione che tentare di farsi amico quello scomodo e potente vicino; inviò, perciò a questo, alcuni suoi alti dignitari con dei doni, per invitarlo come ospite alla reggia d’Ardara, e Ubaldo accettò di buon grado.
Qualche giorno dopo una sfarzosa comitiva regale, in sella a splendidi cavalli, riccamente bardati e recanti preziosi doni, giunse ad Ardara: Mariano l’accolse come meglio non poteva.
La visita durò tre giorni, con le mense, costantemente imbandite con prelibati cibi e squisiti vini. La pietanza che Ubaldo gradì più di tutte le altre, fu il porcello cucinato alla sarda; in particolare, si scava una buca non molto profonda e sufficientemente ampia da contenere un porcellino. Questo s’avvolge, accuratamente con erbe aromatiche e sì sotterra e sopra l’animalesco tumulo s’accende uno scoppiettante e vivace fuoco che deve restare acceso almeno tutta una giornata; dopo di che s’effettua la riesumazione dell’innocente vittima, indescrivibilmente saporita, anche se l’attenzione e il godimento del palato erano distratti, in quel caso, dalla leggiadra presenza d'Adelasia.

3


Adelasia, era anche lei poco più che ventenne, alta e slanciata; aveva i capelli corvini racchiusi in una grossa treccia che gli ricadeva sulle spalle. Gli occhi neri e profondi, brillavano come due carboncini accesi; l'incarnato, era, lievemente olivastro e i lineamenti perfetti, come quelli di una statua greca. Le sue movenze erano aggraziate; vestiva una lunga tunica bianca che lasciava scoperte le tornite braccia e metteva in risalto le sinuose e perfette forme. In sintesi: una solare bellezza mediterranea.
Ogni tanto gli sguardi dei due giovani s’incrociavano ed era sempre lei la prima ad abbassare, pudicamente gli occhi.
E’ logico supporre che Ubaldo rassicurò, convenientemente Mariano delle sue pacifiche intenzioni sul giudicato di Torres; fra i due uomini, anzi nacque una profonda simpatia e stima.
Non passò molto tempo e una nuova delegazione del Giudicato di Gallura si presentò in veste ufficiale alla reggia o castello d’Ardara, da Mariano II; dal quale ricevette, nuovamente una cordiale accoglienza. Dopo i convenevoli d’uso, si passò al motivo ufficiale della visita:
“Il nobile Ubaldo Visconti, Giudice di Gallura, chiede, ufficialmente in sposa, la principessina Adelasia di Torres”.
Mariano domandò qualche giorno di tempo per decidere; nel frattempo gli ambasciatori furono ospitati, confortevolmente a corte. Il giudice di Torres inviò a convocare presso di se Adelasia e più pro forma che per sostanza (certe decisioni si prendevano ugualmente dai “grandi”), le chiese se sarebbe stata lieta di convolare a nozze con Ubaldo Visconti.
La fanciulla avvampò in volto per la piacevole sorpresa, finse di meditare per qualche minuto, poi rispose: “Ne sarei felice ed onorata!”.
Il giorno dopo, presto, Mariano II convocò gli ambasciatori d’Ubaldo ai quali assicurò: “Comunicate al vostro re che io sarò onorato di concedergli la mano di mia figlia; l’attendo, perciò per stipulare il contratto di matrimonio”.
Non trascorsero molti giorni e, ancora una volta uno sfarzoso corteo regale arrivò alla reggia d’Ardara, accolto, sempre con solenni onori.
Fu subito festa grande.
Dopo aver sistemato le cavalcature, alloggiati degnamente e rifocillati come si conveniva i graditi ospiti, i due giudici con i loro consiglieri, compreso Lamberto, padre d’Ubaldo. Il quale aveva rimesso nelle mani del figlio, tutta la sovranità sulla Gallura e le altre terre tolte al giudicato di Cagliari, alla conquista delle quali, aveva contribuito anche il giudice, Pietro II d’Arborea, si riunirono nella sala del trono.
L’accordo fu raggiunto presto: Mariano II, concesse ad Ubaldo la mano della figlia Adelasia e rinunciò ad alcuni diritti su delle terre poste in Gallura, già conquistate dal suo padre, Comita II; non soltanto, come si vedrà, apriva, implicitamente ad Ubaldo la via della successione al giudicato, allora più importante della Sardegna e vale a dire quello di Torres e Logudoro.

4


Le fastose nozze, alle quali furono invitate tutte le signorie della Sardegna, di Genova e Pisa; le quali avevano grossi interessi commerciali con l’isola, furono celebrate in quella che allora, era la più importante chiesa del Giudicato di Torres: la basilica della SS. Trinità di Saccargia, accanto alla quale sorgeva un considerevole monastero di frati camaldolesi, sin d'allora diffusi in Sardegna, e un villaggio di contadini e pastori. Numerosi furono i cortei a cavallo, ricoperti da gualdrappe di pregiati tessuti artisticamente ricamate e contornate da aurei ed argentei bordi; da selle e finimenti, decorate da splendide incisioni, con pomi e staffe dorate.
I cavalieri con le loro dame sfoggiarono sfarzosi costumi ritagliati dalle stoffe più pregiate, adornati di preziose pietre, magnifici ricami in oro e argento, stupendi merletti e finissime trine; abbottonati da filari di meravigliosi rosoni dorati, da collane e polsini della famosa filigrana sarda. Un tripudio di seriche camicie, di morbidi e cangianti velluti, di pregevoli rasi e damaschi.
La chiesa fu addobbata, fastosamente di numerosi e meravigliosi fiori di tutte le specie esistenti; di preziosi tappeti sardi e di pregevoli drappi. Fu illuminata da mille ceri e pareva un luogo paradisiaco. Officiò il rito l’arcivescovo primate della Chiesa Cattolica della Sardegna settentrionale, coadiuvato da numerosi vescovi provenienti da tutte le parti dell’isola. La messa, solenne, in rito gregoriano fu cantata dai monaci camaldolesi.
Subito dopo la cerimonia delle nozze, fu celebrata quella non meno solenne dell’incoronazione d’Ubaldo; il primate benedisse una corona principesca, adagiata su di un rosso cuscino di raso, tenuto da un paggetto nel suo sgargiante costume. Poi sollevò il diadema e lo posò sul capo d’Ubaldo, inginocchiato sulla nuda terra, pronunciando le parole:
“Per volere di Dio, di Santa Romana Chiesa e d’Onorio III, Suo Pontefice massimo, al qual è sottomesso questo giudicato, del quale Adelasia è principessa e, in virtù del vostro matrimonio con ella, vi elevo al grado di Principe Consorte del Giudicato di Torres”.
Un’ovazione fragorosa s’elevò alle alte volte del tempio, unitamente alle grida di:
“Viva gli sposi! Viva la Principessa Adelasia! Viva il Principe Ubaldo!”.
Acclamazioni, che si ripeterono numerose volte fuori della basilica.
Il popolo accolse con favore quelle nozze.
Gli sposi, visibilmente innamorati si mostrarono, anche commossi.
Finita la cerimonia, i fastosi cortei presero la via per la non lontana reggia d’Ardara; nella quale i festeggiamenti si protrassero per più giorni.
I pellegrini, accorsi numerosi, furono rifocillati dai frati camaldolesi, sovvenzionati da Ubaldo e Mariano II.

5


Trascorse, ancora qualche anno e Mariano II, passò a miglior vita.
Gli successe Barisone III; questo come s'è già accennato regnò per tre anni e altrettanti mesi. Dopo di che, nel 1236, fu ucciso dai sassaresi in una sommossa popolare sobillata dai pisani e le sue spoglie furono sepolte nella Chiesa di San Pantaleo in Sorso.
Adelasia diventò giudice di Torres ed Ubaldo, in virtù del suo matrimonio con questa, fu regolo di Gallura e di Torres contemporaneamente.
La sua investitura non fu meno solenne di quella a principe, con maggiore partecipazione di popolo, il quale gli esternò grand’affetto e fedeltà.
Il primo atto ufficiale d’Adelasia, fu quello di supplicare il nuovo pontefice, Gregorio IX, di perseguire gli assassini del fratello.
Questo, commosso dalle parole della giudice, ordinò all’arcivescovo di Pisa di lanciare la scomunica agli autori del misfatto.
Il papa, inoltre, confortato dal fatto che accanto a Adelasia governava Ubaldo e, perciò che i pisani si sarebbero guardati bene dall’insidiare il suo regno, si tranquillizzò alquanto.
Nel frattempo, lo stesso Ubaldo considerava la sua posizione: il matrimonio con Adelasia, oltre ad avergli recato l’amore appassionato e devoto di una sposa, gli aveva, anche donato la sovranità su di un altro regno, anche se in comunione con la sua adorata regina.
Il popolo era contento di lui, anzi l’amava; lo dedusse, anche dalle grandi manifestazioni d’affetto durante la solenne cerimonia d’investitura a giudice. Era soddisfatto delle conquiste nel giudicato di Cagliari e in speciale modo del Castello del Goceano, perciò i bellicosi propositi di un tempo, di sempre nuove conquiste di terre, scomparvero dalla sua mente e si ridussero a più quiete mire: quelle che godersi in pace ciò che la sorte gli aveva consentito d’avere e per consolidare questa posizione, espresse il pubblico desiderio di fare atto di sottomissione al pontefice.
Questi suoi intendimenti furono, immediatamente captati dalla Curia Arcivescovile Torritana; la quale, nel più breve tempo possibile, informò Gregorio IX.
Questo, come tutti i pontefici, sempre intenti ad espandere la loro influenza sul maggior numero possibile di regni, ordinò immediatamente al Legato per la Sardegna e la Corsica, padre Alessandro, suo cappellano, affinché assolvesse Ubaldo, la moglie e il giudice d’Arborea, incorso anche questi nelle ire del papa, per aver concesso l'aiuto ai Visconti nell’invasione delle terre della Provincia Religiosa Cagliaritana, dalle scomuniche.

6


Istruito per bene da Gregorio IX, presso il quale s’era recato, Padre Alessandro un frate di mezz’età; con una gran barba brizzolata che non nascondeva a sufficienza un volto volpino. Con degli occhi acuti e penetranti; indubbiamente era una persona scaltra, intelligente e molto persuasiva, considerati i risultati che ottenne. Con alcuni suoi confratelli, su di un carro trainato da cavalli, fu scortato sino ad Ostia da un reparto di soldati pontifici e, dopo qualche giorno d’attesa riuscì a trovare un imbarco su di un vascello diretto al porto di Torres.
Furono sciolte le ampie vele e mollati gli ormeggi. Lo scafo puntò, sicuramente la prua verso il mare aperto, in direzione ovest, fendendo le acque, che si lasciavano dietro una larga scia schiumosa. La quale si ricongiungeva subito, andando a baciare la parte infima delle robuste murate.
Per quasi un giorno, la nave scivolò via, leggera, agile e veloce sulla appena increspata superficie del mare; poi, all’improvviso, apparvero all’orizzonte, procedendo incontro al natante, minacciosi nuvoloni gravidi di pioggia. Il vento mutò direzione creando un vortice che fece roteare la nave come se fosse una trottola; al centro di questo si formò un vortice largo e profondo, che girando a velocità vertiginosa, minacciò d’inghiottire quel non piccolo legno come un fuscello. La tromba d’aria si risolse, fortunatamente dopo pochi, ma tremendi ed eterni minuti; il vento si stabilizzò in un’unica direzione, sospingendo la nave, altalenante fra le creste di gigantesche onde e le loro depressioni, con decisione verso sud, con le vele lacere e il timone che non governava più. La struttura dello scafo, pur essendo molto robusto, si mise a scricchiolare sinistramente e una valanga d’acqua, accompagnata dal cupo brontolio dei tuoni, dai guizzi improvvisi di luce dei fulmini e delle saette, s’abbatté sul già martoriato natante.
I poveri frati, in preda al terrore, alloggiati sotto il cassero di prua, dove più si ripercuoteva l’agitazione del mare, furono sballottati da una parte all’altra del locale, andando a cozzare violentemente gli uni contro gli altri e contro gli arredamenti, riportando contusioni ed escoriazioni; ogni tanto, le invocazioni alla Divina Misericordia riuscivano a sovrastare il frastuono degli elementi scatenati.
Dopo molte ore, le forze della natura irate, si calmarono e si poté mettere mano a sgottare l’acqua piovana e di mare dallo scafo quasi allagato e che minacciava di farlo sprofondare per l’eccessivo peso; i non avvezzi frati, con i loro fradici sai, furono adibiti, anche loro alla bisogna.

7

Il capitano, cessata la bufera, cercò di "fare" il punto per sapere dove si trovavano, ma non gli fu possibile, perché la volta celeste era oscurata dalle nuvole e le stelle non si vedevano: occorse attendere il sorgere del Sole del domani.
Certo è che il furioso vento che gli aveva sospinti fuori rotta, verso sud, gli aveva, anche fatti correre veloci e a lungo; dopo che il comandante, infatti, finalmente, riuscì a stabilire la loro posizione e, si rese conto che si trovavano in prossimità d’Algeri, verso la quale erano, ancora, seppure dolcemente, sospinti.
Tanto valeva raggiungere uno dei porti posti in quella parte d’Africa, con la speranza di non imbattersi in qualcuna delle navi piratesche, che partivano da detta costa e che nello stesso periodo infestavano il Mare Mediterraneo.
Fortuna che gli alberi del vascello non avevano ceduto. Rabberciarono, perciò un po’ di velatura e con questa raggiunsero il primo porto che parve a loro tranquillo.
Acquistarono delle nuove vele, che essendo diverse dalle loro, poiché quadrangolari, dovettero adattare; rifornirono la cambusa d'altri viveri, perché quelli che v’erano stati stipati prima della partenza, durante la tempesta, s’erano deteriorati. Si rifornirono d’acqua potabile; effettuarono qualche riparazione non procrastinabile allo scafo, e il più presto possibile, ripresero il largo.
Dopo alcune ore di navigazione incapparono in un’indesiderata bonaccia: il mare divenne piatto come un asse, non soffiava un alito di vento e diventarono facili prede di legni pirati, che navigavano anche a remi.
Proprio uno di questi, il secondo giorno di stasi, apparve all’orizzonte e nonostante fosse evidente la sua inferiorità di potenza; gli occupanti del natante dei ladroni, ci vollero provare ugualmente. Si portarono a distanza sufficiente e tempestarono, prima, di frecce incendiarie la tolda del vascello e poi tentarono di salire a bordo con delle cime munite d’arpione, che s’aggrappavano alle murate. Furono accolti dalla ciurma del vascello con un nugolo di dardi di balestra; le frecce incendiarie furono respinte al mittente e i pirati che riuscirono a salire in coperta, furono rigettati a mare con le punte delle alabarde.
Capito che non sarebbero mai riusciti nell'intento, i predoni raccolsero dall’acqua i loro compagni ancora vivi e, posta mano ai remi, s’allontanarono velocemente, scomparendo all’orizzonte, in direzione delle coste dell’Africa settentrionale; chissà, altrimenti che fine sarebbe toccata ai poveri frati, prede di quegli “infedeli”?
Proprio a causa di ciò, quando avevano toccato il porto che avevano lasciato, s’erano tenuti in abiti discinti nel loro alloggio, attendendo, anche che le vesti religiose, stese non in vista asciugassero; nel frattempo non compirono altro che pregare fervidamente.

8


Il malcapitato Padre Alessandro, essendo il più anziano, fu quello che soffrì più di tutti, perché sin dall’inizio del viaggio, lo colse il mal di mare; più volte si chiese se sarebbe arrivato vivo a compiere la sua importante missione.
Ben tre giorni durò la bonaccia e dopo di questa si levò un vento che gli prese di fianco, costringendo la nave a deviare la rotta e ad allungare il tragitto, arrivando quasi a toccare le coste della Spagna.
Finalmente, il vento cambiò nuovamente direzione e spirando da poppa, gli sospinse in modo celere in vista di Cagliari.
Erano trascorsi venti giorni da che avevano lasciato Ostia e non c'è da meravigliarsi: i viaggi per mare, a quei tempi erano sempre un’incognita e un’avventura.
Lo scalognato Padre Alessandro e quelli della sua congrega, non se la sentirono più d'arrivare a Torres via mare; non erano informati, però, gli sprovveduti, che una cavalcata di circa cinque giorni gli attendeva. Questo, era possibile, soltanto grazie al frequente cambio con cavalli riposati alle poste, altrimenti sarebbe occorso molto più tempo; senza contare gli accidentati e impervi tracciati delle strade da percorrere e gli imprevisti ritardi dovuti all’incontro di grassatori e assassini, nei quali era facile imbattersi.
Sbarcati a Cagliari si recarono presso la locale Curia Arcivescovile; qui si rimisero in sesto dopo le traversie passate e quindi presero la strada per Ardara.
Finalmente, Padre Alessandro si trovò al cospetto d’Adelasia in gramaglie e affranta dal dolore per la morte violenta del fratello Barisone, barbaramente trucidato.
Il frate le profferì parole di conforto, le assicurò la protezione del Sommo Pontefice e la consigliò di corrispondere in modo adeguato alle premure di questo; da parte sua, era pronto ad accettare e ad ufficializzare le dichiarazioni che avrebbe rilasciato in merito.
Queste non tardarono ad essere pronunciate e consistevano nel sottoporsi, per quanto atteneva al Giudicato di Torres e delle terre da lei possedute in Corsica, Pisa e Massa, al supremo dominio dei pontefici; nel frattempo nominò questi suoi eredi universali, qualora fosse deceduta senza prole.

9


Ubaldo, nell’approvare quanto espresso da Adelasia, dichiarò a sua volta, di riconoscere la supremazia della Chiesa Romana sul Regno Torritano, sulle terre da lui possedute nel Giudicato di Gallura e su quelle della moglie in Sardegna e in Italia; rese l'omaggio e promise fedeltà ed obbedienza al sommo pontefice.
Padre Alessandro, che s’era, stabilmente installato con gli accompagnatori nella reggia d’Ardara, accettò queste dichiarazioni; tolse la scomunica a suo tempo comminata a Adelasia e ad Ubaldo, e sanò una controversia fra questi e il giudice Pietro II d’Arborea.
Il giudice Pietro suddetto, ormai senza alcuna certezza di lasciare prole, istituì anch’egli suo erede universale il romano pontefice.
Lo scaltro Alessandro, non soddisfatto delle sole promesse verbali, con parole suadenti convinse i due giudici a "mettere" il tutto per iscritto.
Scrive Tola, nel suo Dizionario degli Uomini Illustri di Sardegna:
“Sono quattro i diplomi dai quali si ricavano questi fatti; i primi tre hanno la data del 3 marzo 1236 e il quarto quella dello stesso giorno e medesimo mese dell'anno 1237. Furono redatti nella reggia o castello d’Ardara da Gregorio, archivista della Chiesa Romana e sottoscrissero come testi i vescovi di Bisarcio e Ampurias, l’abate del monastero di Saccargia e fra Orlando, frate dello stesso convento.”
Il legato pontificio, al fine di tenere sempre più avvinti al papato i due giudici continuò a rimanere in Sardegna e minacciò di scomunicare chiunque, avesse svelato gli accordi stipulati fra i Giudici di Torres e il Sommo Pontefice, perché dovevano restare segreti.
Detto frate, dopo circa un anno riuscì a rafforzare il legame fra Adelasia e Ubaldo con Gregorio IX, pontefice (Adelasia, in virtù del suo matrimonio con Ubaldo, era diventata parente dei papi Innocenzo III e Gregorio IX) con un altro accordo; con questo, Padre Alessandro, in nome di Gregorio IX, trasferì alla persona d’Adelasia, ogni diritto di sovranità sulla Provincia Religiosa di Torres. Allo stesso tempo, però pretese da Adelasia e da Ubaldo che cedessero al Papa il possente Castello di Monte Acuto.

10


La cessione di Monte Acuto, avvenne il 14 aprile 1237 e due giorni dopo, il legato pontificio effettuò la consegna di detta rocca al vescovo d’Ampurias, che la ritenne in nome delle Santa Sede. Scrive ancora Tola, nella sua succitata opera:
“Sono quattro, parimenti i diplomi relativi a tale investitura e cessione; uno dell’otto aprile 1237, due del 14 e il quarto del 16 dello stesso mese e anno. Inoltre, con diploma del 3 maggio 1237, Adelasia s’obbligò a versare, annualmente, alla Chiesa Romana, quattro libre d’argento a titolo di vassallaggio e rinnovò il patto di reversibilità alle Santa Sede morendo senza successione.
Tutti questi atti furono sottoscritti nel Castello d’Ardara e sono riportati, anche questi dal Muratori nel tomo VI "Antitatum Italicorum, dissert. 71”.
Bene commenta, ancora Tola nel suo dizionario citato, dei suddetti accordi:

"La Storia ce li tramanda tutti per attestare la debolezza di quei principi, quanto felici per acquistare, altrettanto proclivi a cedere altrui gli acquistati diritti di sovranità; così comportandosi rimase alla regina Adelasia il solo titolo di regnante. Per quanto riguarda Ubaldo non si vergognò per niente di aderire a tali atti che oscurarono la gloria della sua conquista, sperando di godere a lungo con l'amata Adelasia quella pace raggiunta."

Disgraziatamente questa durò ben poco, perché nel 1238 ... moriva.
Maturò per la principessa di Torres fatale destino.
Informato della morte d’Ubaldo, Gregorio IX reputò di trarne subito vantaggio per accrescere la sua potenza con l’acquisizione di nuove e importanti parentele e per riaffermare per sempre i diritti delle Santa Sede sulla Sardegna, e inviò subito un’epistola alla vedova.
Con questa, il pontefice scrisse che doveva essere motivo di consolazione il fatto, che Ubaldo, avanti di morire, si fosse redento dai suoi errori nei confronti delle Santa Madre Chiesa, che non avesse alcuna paura di sedizione contro di lei e che per essere sostenuta nel suo regnare, aveva pensato di metterle accanto, un nuovo sposo. In seguito, il pontefice individuò costui nella persona di un certo gentiluomo pisano della casata De' Porcari, chiamato Guelfo, molto devoto alle Santa Sede, della quale godeva piena fiducia. Restava, perciò nell'attesa di una sua risposta in merito.
Erano tempi calamitosi per l’Italia, quelli.
Le città della Lombardia erano cadute in mano dell’Imperatore Federico II di Svevia; il quale non disperava di rimettere in piedi l’antico impero romano, incollando i pezzi nei quali era stato frazionato e fra questi, la Sardegna.
Federico, non tardò anche lui ad inviare i suoi ambasciatori a Adelasia, proponendole come sposo il figlio, Enrico, noto con il nome d’Enzio, natogli da Bianca, una sua delle tante concubine, non ancora ventenne, ma soprattutto bello.
Non si dimentichi che Adelasia era appena trentenne e non seppe resistere a quella splendida offerta di fama e di bellezza.

11


Era trascorso circa un anno dalle solenni esequie del suo primo marito ed ella si ritrovò per la terza volta, sotto le alte volte della basilica di Saccargia; le seconde nozze furono ancora più sfarzose e solenni, degne del figlio di un imperatore che v’assisteva.
A Adelasia, non pareva vero avere al suo fianco un biondo e giovane uomo; i suoi sensi sopiti si risvegliarono e bramò ardentemente di trovarsi al più presto fra le braccia del suo magnifico sposo.
Sposato Enzio e divenuta comune con lui la signoria di Torres e di Gallura, Adelasia fornì l’occasione all’imperatore Federico di nominare suo figlio, Re di Sardegna, ma, come sì vedrà, evidentemente detto titolo, com’era avvenuto per Barisone III d’Arborea, non portava bene.
Nella sua breve convivenza con Enzio, Adelasia si rese ben presto conto come male portino le unioni nelle quali da una parte si mercanteggia la vanità e dall’altra il potere.
Non passò molto tempo che Enzio si stancò della moglie; (aveva ereditato, evidentemente dal padre) e rivolse le sue attenzioni a più giovani, carine e disponibili donzelle del reame.
Spesso, come succede in simili casi; oltre a trascurare i suoi doveri coniugali, Enzio iniziò, anche a maltrattare la legittima sposa. Non soltanto, ma l’esautorò d’ogni suo potere nel governo del paese e Adelasia da padrona diventò schiava.
Alla fine, travagliata da quell’inumano trattamento, fu confinata e rinchiusa nello stesso castello, che era stato vanto d’Ubaldo: l’averlo conquistato e annesso al Regno di Torres.
Il quel castello s’è visto Adelasia, all’inizio della narrazione di questa “isthoria”.

12


In ogni modo, per Enzio quelle nozze non furono più felici, poiché il titolo di Re di Sardegna conteneva, effettivamente cattivi auspici e se poco mancò che Barisone III d’Arborea, morisse in galera, altrettanto non si poté dire per Ezio.
Invano, questo si rese famoso con le sue scorrerie e le conquiste di terre italiane; inutilmente si distinse nella memorabile battaglia della Meloria, conclusasi con la vittoria dei genovesi sui pisani, durante la quale, rimasero prigionieri di Federico II, i prelati francesi convocati a Roma dal pontefice.
Infine, si può affermare che la sorte fu, anche beffarda con lui; rimasto prigioniero dei bolognesi durante la battaglia fra questi e i modenesi, per così affermare “futili motivi”: il rapimento di un secchio in Bologna, immortalata dal Tassoni in un suo tragicomico poema, dal titolo, appunto “La secchia rapita.
Per quanto numerose e autorevoli fossero state le richieste, i bolognesi non lo liberarono mai e il famoso re Enzio ... morì in prigione.

EPILOGO


Dopo la cattura d’Enzio, Adelasia sarebbe, anche potuta uscire dalla rocca dov’era stata segregata, ma era talmente prostrata dalle sofferenze, che preferì chiudere la sua vita in quel maniero.
La successione d’Adelasia non è ben conosciuta; in ogni caso, da documenti relativi ad Enzio, si ricava che dalle sue nozze con Adelasia nacque una figlia, Elena, che sposò il conte Guelfo di Donoratico, zio materno del famoso giudice, Nino di Gallura.
Stando alle profonde credenze di quei giorni, si sarà affermato, che le pene sofferte e la fine fatta da Enzio e Adelasia, fossero state le conseguenze della scomunica lanciata loro da Gregorio IX, pontefice.




 
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